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mercoledì 28 luglio 2010

...il salto...


Cercammo di saltare quel lungo fossato rettilineo.
Toccava a me per ultimo, come al solito.
Giunsi a pochi passi dal punto del balzo, ma compresi che i miei limiti, sommati alle paure di sempre, non permettevano al mio corpo, per quanto magro, di lasciarsi andare, al di là dell’affilato cordolo di cemento.

Avrei voluto possedere un paio di ali o, semplicemente, due gambe di gomma, di quelle che vedevo nei fumetti della mia infanzia, attaccate a qualche stravagante supereroe colorato e dal nome impronunciabile.
La mia agilità si era rivelata poco più di una serie di goffi movimenti, a scatti, incontrollati, che avrebbe esilarato il pubblico di un circo estivo all’aperto.
I miei compagni mi guardavano dall’altra parte, tenendo gli sguardi per metà inclinati, nascondendo silenziose risate per la mia palese incapacità.
Incapacità resa ancor più plateale dalla lunga pausa che mi divideva da Antonio, che aveva superato quella storica prova senza alcuna esitazione e con un largo scarto sull’altra ansa del fosso.

Andava presa una decisione, ed anche alla svelta.

O saltavo, o dichiaravo pubblicamente la motivazione che mi aveva indotto a non farlo.
Non avrei potuto più farlo.
Era certamente quella l’ultima occasione per me.

Avvertii una strana sensazione di freddo addosso.
Fuori l’aria era calda, potevano essere poco meno delle cinque del pomeriggio.
Lo sapevo perché in quel punto del fossato vi erano due tralicci di legno, di quelli che sostengono i cavi del telefono, le cui ombre si allineavano perfettamente l’una con l’altra, proprio a quell’ora.

La decisione era ormai concreta.
Sarebbe stato proprio quello il segnale da adottare, per prendere una sufficiente rincorsa, prima di saltare, e raggiungere i miei amici, che non sembravano molto turbati dalla mia ormai lunga esitazione.
Dall’ altra parte del pitone, così lo chiamavamo tra di noi, per non svelare la vera identità di quel luogo, visto con pericolosità dai nostri genitori, c’erano loro, ad aspettare, con un pizzico di salata cattiveria, un mio ulteriore insuccesso, ovvero il definitivo abbandono dell’impresa.

Le due ombre si muovevano con la lentezza e la precisione delle gambe di un compasso.
Proprio quel pomeriggio sembrava non volessero ripetere quel naturale fenomeno, legato esclusivamente alla loro posizione verticale rispetto al terreno e generato dalle prime luci del tramonto.
Stavolta non potevo certo mentire, a me stesso, più che a loro.
Non volevo assolutamente ritrattare quella decisione, anche se quella sensazione di freddo continuava a fermare le ossa e miei muscoli.
Ma non mi avrebbero atteso ancora a lungo, ne ero certo.
Mentre avvertivo una luce che mi restituiva serenità, si alzò un forte vento che costrinse i miei compagni, che mi osservavano con attenta sfida, a serrare improvvisamente gli occhi.
Una vera e propria nuvola di polvere chiara si diresse verso di loro, lasciandoli infastiditi e distratti dall’attenta osservazione su la mia buffa sagoma.
Mi ero già allontanato abbastanza dal punto del salto e avevo incominciato a correre lentamente.
Il vento era diventato forte, di una forza insolita, quasi immateriale, che mi spingeva l’intera superficie della schiena.
Accelerai di scatto e la mia falcata divenne lunga e sicura.
Era come se nel mio corpo ci fosse qualcun altro, un pilota che stava prendendo quell’iniziativa che mi era mancata tante altre volte.
A meno di una spanna dal cordolo, in un punto dove erano evidenti i segni delle cicche di sigarette che si spegnevano dopo le fumate giovanili a gambe penzoloni, staccai il piede sinistro, che sembrò andare avanti per conto suo.
L’ altra gamba seguì il resto del corpo che ormai non riconoscevo neppure più mio.
L’ unica immagine che mi riportò al tempo reale fu quando mi ritrovai seduto a terra, rendendomi conto di essere a meno di un passo da loro. Dai cinque che già pensavano di andare via da lì, chiaramente senza di me.
Antonio mi allungò la mano, aiutandomi a tirarmi su.
I miei jeans erano pieni di polvere, la stessa che mi aveva rapito pochi istanti prima.
“Nessuno era mai riuscito a saltare in quel modo!”.
Disse Marcello, con gli occhi sgranati e ancora arrossati, dal vento che era calato da pochi secondi.
“Maledetto imbroglione, ci hai presi in giro ogni volta che siamo venuti qui”.
Continuavano a borbottare, ancora increduli per ciò che forse non avevano neppure ben visto.
Nessuno di loro, difatti, sembrava avesse mai superato, così abbondantemente, quel canaletto, compreso me.
Forse il vento, forse l’ombra dei due tralicci, non certo il senso di sfida che aleggiava in quel luogo, e che ne era ormai diventato l’emblema, ma io ero passato dall’altra parte del pitone, senza neppure rendermene conto come.
Astrid, che li aveva raggiunti, passando dal piccolo ponte della ferrovia, mi sorrise in silenzio, regalandomi la sua divertita ammirazione, o forse qualcos’altro, qualcosa che avrei scoperto solo dopo tanto, tantissimo tempo.

tratto da "NON ERA UN SOGNO"

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